Spostare la sedia al "fagiolo"

 E così, inizia un altro anno “accademico”, il mio terzo. 

Intendete, non mi sto laureando in nulla, sto semplicemente parlando della mia voglia di mettermi in gioco durante la mia terza età facendo quello che avrei dovuto fare da giovane: studiare musica. In realtà è il mio secondo anno, perché il primo l'avevo iniziato molto tardi (a marzo 2023).

Nelle salette di attesa della mia scuola rincontro facce conosciute (sebbene non le avessi mai lasciate, complici i vari “saggi” estivi”) e c'è quel sapore di “primo giorno di scuola”... Poi arriva Daniela (la mia docente di canto), e con il suo energetico sorriso mi dice: “Su su, Marco, vai in sala canto e comincia a riscaldare la voce che sennò facciamo le due del pomeriggio!”.

Entro, e poggio le mie robe sulla sedia alta che sta di fronte ad un'asta microfonica. Tiro fuori il mio mic, la mascherina per scaldare più velocemente le corde vocali, l'acqua per umidificare, e un foglio con una canzone che ho preparato durante l'estate... che tanto lo so... Daniela mi dirà :”Cosa mi canti, allora?”.

Stavolta ho “giocato d'anticipo”: un pezzo del 1963 di Fred Bongusto: “Amore fermati”.  Confesso, è una “captatio benevolentiae” visto che so lei amare quel tipo di musica, tanto che ne aveva fatto assieme al suo gruppo un progetto per un paio di estati (e, a dire il vero, ad un concerto ho anche fatto da presentatore, pensate un po'... sembra una vita fa!). 

Canto il brano e mi adagio mollemente e  soddisfatto su una immaginaria sedia di compiacimento e dentro quel suo “Non male Marco, bravo!”... ma sono costretto da lei ad alzarmi praticamente subito... perché lei “sposta la sedia”.

Cosa significa “sposta la sedia”? Come cantante dilettante, dopo tre anni, qualche abilità e “trucco” del mestiere l'ho acquisito, e (complice la scelta di un brano non difficile come estensione) dopo aver studiato a casa il brano per più di due mesi, riesco a produrre un suono quasi degno... e che, alla fine, mi piace. Insomma, mi sono seduto sulla famosa “sedia”.

“Ok, Marco, il brano lo conosci abbastanza bene. Adesso cominciamo a lavorarci davvero però...”

Ecco, la sedia dove mi ero mollemente seduto per gustarmi quel “non male, bravo” se ne sta già andando da sotto il sedere! 

“Mancano gli accenti sulle sillabe, scrivili un po!'... Attento ad articolare bene le parole... Fammi il favore di muoverla 'sta mandibola sulle 'A', eh!... E attento a dove metti la lingua che altrimenti il suono è  tutto nasale...”.

Direte voi: “E che c'è di strano? E' una insegnante! E tu no! Per quello vai a scuola!”.

Già, lo so... ma non è lei che mi stupisce; sono io a stupirmi di me stesso. 

All'epoca (una vita fa) di quando  facevo l'università a Roma, c'era una parola precisa per indicare gli studenti del secondo anno: erano i “fagioli”. Era una parola che veniva da molto lontano, addirittura dal medioevo: la AI di Google lo definisce così:

“Gli studenti del secondo anno universitario venivano chiamati "fagioli" (phaseolus) in riferimento al Baccellierato, la laurea breve che conferiva il titolo di "baccelliere" (come un baccello) e che richiedeva un corso di due anni, equivalente al primo biennio universitario odierno. Questo termine risale al Medioevo e deriva dalla parola latina "phaseolus", con cui si indicava sia il fagiolo sia il "baccello" che ne racchiude i semi.”

Ora, quale era la caratteristica dei “fagioli” universitari? Quella di credersi ormai “esperti”, e di dare spesso sfoggio delle proprie conoscenze (sia didattiche che di vita universitaria) alle povere matricole. Erano così stucchevolmente insopportabili che sovente finivano dentro alla fontana della Minerva posta nella piazza della Sapienza, nel bel mezzo del campus universitario, così da rinfrescarsi un po' le idee.

Eccomi descritto: un “fagiolo musicale”. Non so ancora praticamente nulla del canto, ho appreso qualche minima tecnica, sono mediamente intonato... Ma tra quello e sedersi soddisfatto, beh, ne dovrebbe passare!

E questa riflessione interiore mi apre a tutta una serie di ricordi scolastici ed universitari (e anche delle scuole di teologia che ho frequentato), dove i migliori insegnanti non erano quelli che mi facevano sentire bene, ma quelli che mi hanno fatto sentire scomodo. Che mi hanno costretto ad alzarmi dalla sedia dove riposavo soddisfatto. Che mi hanno messo dubbi sul come ero arrivato a sedermi. Che mi hanno insegnato a non sedermi affatto.

Certo, all'epoca, da giovane quale ero,  amavo i primi, e odiavo i secondi; a sessantatre anni non posso più permettermi di farlo. Ed è per quello che mi stupisco. 

Perché penso ancora come un “fagiolo”. Perché credo ancora che si possa arrivare senza fatica. Perché la mia indole interna cerca una sedia, e non il cammino. 

Mi stupisco di non aver ancora capito che la vita non è un equilibrio statico, ma dinamico. Che ogni passo è una possibile caduta perché comporta sbilanciarsi in avanti, e che per non cadere devo trovare la maniera di poggiare il prossimo piede in modo corretto. E che per trovarlo ho bisogno  di essere affamato, e non sazio.

E capisco che sono frutto di una società che enfatizza l'arrivo, piuttosto che il viaggio. Che tende a farci saziare al primo minimo successo. E che, invece quel “stay hungry stay foolish” pronunciato da Steve Jobs davanti ad una platea di giovani che erano nell'alba delle loro vite, lo debbo applicare a me stesso, anche se sono al tramonto...

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